sabato 20 marzo 2021


Riscoprire il senso dell’umano: Antropocene e tutti gli altri “ceneismi”

Questo articolo è stato pubblicato nel magazine ReWriters:


Silvia Peppoloni
Le parole che accompagnano la scena finale del film Antropocene: l’epoca umana (2018) tentano di sollevarci dall’angoscia indotta dalle immagini sul disastro planetario antropogenico e di alleviare il nostro rammarico impotente di esseri umani, complici dello stato in cui versa la Terra, lasciandoci intravedere una via per il nostro riscatto: “La Terra ha quattro miliardi e mezzo di anni; possiamo leggere la sua storia nelle rocce. La civiltà moderna si è sviluppata soltanto negli ultimi 10.000 anni, ma la nostra specie è riuscita a spingere i sistemi del pianeta oltre i loro limiti naturali. Siamo tutti coinvolti, alcuni più profondamente di altri. Ma la tenacia e l’ottimismo che ci hanno fatto progredire possono aiutarci a far tornare questi sistemi a un livello che garantisca la sicurezza della vita sulla Terra. Riconoscere e rivalutare i segni della nostra dominazione è l’inizio del cambiamento”.

L’Antropocene, da un lato dominio e prevaricazione, dall’altro consapevolezza e speranza.

Sono circa venti anni che si discute di Antropocene. Il termine fu introdotto da Eugene Stoermer negli anni ’80 ad indicare l’epoca recente dominata dall’essere umano, ma assunse rilevanza planetaria agli inizi del XXI secolo grazie a Paul Crutzen, recentemente scomparso, nobel per la chimica per i suoi studi sulla deplezione dell’ozono.

Da allora la comunità scientifica, così come quella filosofica e delle scienze sociali, sono state animate da accesi dibattiti intorno a questa parola e al concetto implicito. In ambito scientifico, i geoscienziati stanno ancora cercando di capire se sia possibile e corretto dal punto di vista stratigrafico denominare Antropocene una nuova epoca geologica successiva all’Olocene, a sua volta iniziato 11.700 anni fa al termine dell’ultimo periodo glaciale. Per far questo occorrerebbe individuare un marcatore stratigrafico, chiaramente antropogenico, all’interno dei depositi geologici più recenti, inequivocabilmente associato ad una transizione geo-ambientale, persistente nel tempo geologico e rilevabile in vari punti della Terra, di estensione planetaria e temporalmente coevo, che possa rappresentare un preciso limite cronostratigrafico nella scala del tempo profondo della geologia, un passaggio tra momenti diversi della storia del pianeta.

Ci sono numerose idee a riguardo, come ho illustrato nel libro Geoetica recentemente pubblicato da Donzelli Editore, ma la questione è intricata e densa di significati non solo scientifici. Filosofi, sociologi, economisti, storici ne parlano nelle loro analisi, sottolineando l’iniquità, le disuguaglianze, le logiche di potere e di dominio, il lato più oscuro del capitalismo che l’idea corrente di Antropocene porta con sé. Del resto, al di là della sua possibile certificazione scientifica, l’Antropocene è l’epoca in cui la storia del pianeta e quella umana si intrecciano, ed è di fatto connotato da Homo sapiens, incontrastato dominatore della natura, modificatore incessante della sua nicchia ecologica secondo le sue necessità e il suo desiderio di soddisfare gli istinti di primato sui suoi simili. L’Antropocene, dunque, come paradigma della rigida applicazione dell’antropocentrismo nella sua accezione più negativa, in cui l’essere umano si auto-assolve dall’accusa di aver causato la distruzione degli altri esseri viventi, della biosfera, dell’intero sistema Terra.

A queste considerazioni sono solitamente collegate una serie di critiche e attacchi, talvolta dai toni moralistici, alla civiltà occidentale, responsabile di tutto ciò che esiste di negativo nella storia passata e presente, compresa l’attuale crisi ecologica.

A partire da questa visione, del resto condivisibile e ricca di spunti utili per avviare i cambiamenti indispensabili ad invertire la rotta, sono derivate negli anni una serie di sottocategorie dell’Antropocene, progressivamente utilizzate per connotare i tratti principali del nostro tempo,  un sottobosco di termini dal suffisso comune: “-cene” (dal greco kainós, nuovo, recente). Ecco alcune di queste proposte: Termocene, Anglocene, Capitalocene, Tanatocene, Fagocene, Fronocene, Agnotocene, Polemocene, Sinforocene, Plasticocene, Pandemiocene, Tecnocene, , Econocene, Homogenocene, Chthulucene, Entropocene, persino Trumpocene…. e di sicuro ne sto dimenticando altri. Tutti questi termini in definitiva dissezionano analiticamente l’Antropocene per poi andare a ricomporlo in una molecola complessa di ceneismi.

Ma dietro la dissertazione scientifico-filosofica che sostiene le ragioni dell’una o dell’altra proposta, definizione, sottocategorizzazione, si intravede un possibile rischio: la ricchissima esperienza umana potrebbe essere semplicisticamente considerata qualcosa da rinnegare in toto, e l’Antropocene ridotto all’insieme dei prodotti di un essere umano inquinatore, prevaricatore, cinico, massacratore, in una battaglia iconoclasta contro l’antropocentrismo, per cui la specie umana sarebbe il vero virus del pianeta. E in questo processo di condanna, potrebbe quasi svanire quanto c’è di meglio dell’essere umano: la sua creatività, la sua curiosità, la sua capacità di essere solidale ed empatico, di costruire legami di amore e di amicizia. Così come rischierebbero di essere minimizzati i traguardi e le espressioni migliori dell’impegno intellettuale e artigiano dell’essere umano, come l’arte, la scienza, la tecnica, il diritto, la filosofia, la democrazia. Ridurre a questo l’Antropocene non potrebbe che generare ansia, frustrazione, schizofrenia, perdita di ogni speranza per il futuro.

L’essere umano si costruisce e si determina nella sua individualità, ma è la sua sfera di relazioni che dà senso alla sua esistenza: le interazioni sociali e naturali sono espressioni della sua natura al di là del proprio corpo. Questa fitta rete di relazioni è l’umano, senza soluzione di continuità nel suo essere.

Riflettere su questo può farci sperare che l’Antropocene, nella sua accezione più negativa, prima ancora di iniziare possa già considerarsi terminato, passato, dissolto alla luce di una nuova consapevolezza di reciproca appartenenza e di impegno alla responsabilità. E può accelerare quella crisi di coscienza scaturita dall’Antropocene in grado di traghettarci prima possibile verso il Koinocene, che l’antropologo Adriano Favole definisce “… una nuova era in cui l’essere umano saprà riconoscere la ‘somiglianza’, la ‘comunanza’, la ‘partecipazione’, le ‘relazioni’ … tra tutti gli esseri viventi e non viventi che abitano il pianeta”.

La Terra, dunque, come spazio di relazioni, luogo in cui il concetto di koiné, quale lingua comune e unificante, si specifica nel suo significato allargato di civiltà universale, di comunanza, di dimensione sociale condivisa da tutti i popoli che costituiscono il complesso mosaico dell’umanità, di partecipazione senza dicotomie e contrapposizioni tra esseri umani e non umani, animati e inanimati, tra natura e spirito.

In questa continua e affannosa corsa per capire cosa siamo, individuandoci spesso in modo schizofrenico al di fuori di noi stessi, inconsapevolmente ci neghiamo, definendo la nostra complessità con parole insoddisfacenti. E mentre indirizziamo le nostre analisi sulla frustrazione, ritenendola causa e non effetto di una scissione in noi stessi e con la natura che è in noi, colpevolmente dimentichiamo proprio l’essere umano nella sua autenticità.

Forse per scongiurare eventi planetari irreversibili non occorre cambiare l’umano, quello vero, autentico, sapiente, ma solo imparare a riscoprirlo ed ascoltarlo.

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IAPG - International Association for Promoting Geoethics

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