Quando i Piani Stralcio per l’Assetto Idrogeologico
diventano la panacea di tutti i mali
A cura di
Nicoletta Fasanino
Fino ad oggi, si è assistito in Italia ad una legiferazione "d'emergenza" per affrontare il dissesto idrogeologico, che ha portato all'introduzione nel contesto normativo di dispositivi atti ad affrontare le criticità imminenti, ma di fatto privi di lungimiranza perché contenenti solo cenni alla necessità di procedere con attività di pianificazione e programmazione degli interventi per la messa in sicurezza del territorio.
Mere indicazioni che, nella grande maggioranza dei casi, non sono mai state seguite.
Ci si è ritrovati così ad avere intere porzioni di territorio sottoposte ai Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico (P.S.A.I.), provvedimento che da solo sta tentando di assolvere al "risanamento idrogeologico del territorio tramite la prevenzione dei fenomeni di dissesto, la messa in sicurezza delle situazioni a rischio" (Art 53 comma 1 del Testo Unico ambientale), ma di contro sta paralizzando la pubblica amministrazione che, invece, per il conseguimento della finalità innanzi detta dovrebbe svolgere "ogni opportuna azione di carattere conoscitivo, di programmazione e pianificazione degli interventi, nonché preordinata alla loro esecuzione" (Art 53 comma 2 del Testo Unico ambientale).
Le carte della pericolosità e del rischio dovevano essere uno strumento di orientamento all'attività di governo del territorio, per mettere in luce le criticità, prevenire ulteriori ingerenze dell'antropizzazione in contesti geo-ambientali fragili, nonché essere di ausilio per pianificare studi più approfonditi, propedeutici ad una progettazione e programmazione degli interventi di messa in sicurezza (definendone anche le priorità per facilitare così il fund-raising, ovvero il reperimento di finanziamenti).
Dunque, punti di partenza per le amministrazioni locali in considerazione, anche e soprattutto, del livello di dettaglio con cui sono state realizzate.
Facendo riferimento al percorso metodologico delle Guidelines for landslide susceptibility, hazard and risk zoning for land-use planning (R. Fell, J. Corominas, C. Bonnard, L. Cascini, E. Leroi, W.Z. Savage on behalf of the JTC-1 Joint Technical Committee on Landslides and Engineered Slopes), per lo scopo di statutory, ovvero per la messa a punto di prescrizioni normative, una zonazione alla scala di 1:25.000 è soddisfacente solo se effettuata ad un livello di dettaglio avanzato.
Infatti, bisogna considerare che è diverso il risultato ottenibile da una zonazione del rischio effettuata con metodi di base (qualitativi) per i quali, ad esempio, la pericolosità è valutabile, tramite correlazioni, alla suscettibilità all’innesco di un dato fenomeno franoso, piuttosto che come probabilità di accadimento, tramite un metodo che integri l’analisi storica, geologica e geomorfologica del territorio (metodo avanzato, quantitativo).
Figura 1 Tipi e livelli di zonazione raccomandati e scale delle mappe relativi agli scopi che si vogliono raggiungere ( Fonte: Guidelines for landslide susceptibility, hazard and risk zoning for land-use planning).
In Campania, a partire dal 2002, l’Autorità di Bacino del Sarno ha predisposto un aggiornamento dei P.S.A.I. (concluso e adottato nel 2011), per tenere conto del possibile verificarsi di nuovi eventi alluvionali e nel fare ciò ha utilizzato uno strumento di analisi che permettesse di considerare i limiti dell’analisi qualitativa, avvicinandosi, per quanto possibile, alla logica dell’analisi quantitativa del rischio. Questa scelta ha comportato una ri-perimetrazione delle aree a rischio, con il declassamento di 38,5 kmq di aree classificate a pericolosità P4 e di 54,03 kmq a pericolosità P3 in classi a pericolosità inferiore. Di conseguenza, si è osservato un incremento di 62,06 kmq delle aree classificate a pericolosità P1 e di 26,07 kmq di quelle a pericolosità P2.
Questo significa che dal 1998 (anno dell’introduzione delle carte della pericolosità e del rischio idrogeologico) al 2011 (anno dell’adozione dell’aggiornamento), su 88,13 kmq di territorio campano è stato impossibile:
Questo significa che dal 1998 (anno dell’introduzione delle carte della pericolosità e del rischio idrogeologico) al 2011 (anno dell’adozione dell’aggiornamento), su 88,13 kmq di territorio campano è stato impossibile:
- demolire e ricostruire;
- mutare la destinazione d'uso che avrebbe comportato un aumento del rischio (si pensi ad esempio all’apertura di un'attività commerciale o di offerta turistica);
- costruire edifici;
- sanare situazioni di abusivismo edilizio (andando perciò incontro al conseguente provvedimento di demolizione);
senza poi considerare la diminuzione del valore delle proprietà dovute al vincolo gravante.
Quanto detto permette di individuare diverse problematiche di carattere scientifico e politico sul tema:
- Alla luce dei consistenti passi avanti fatti dalla comunità scientifica in materia di gestione del rischio, non è accettabile che carte della pericolosità e del rischio vengano redatte con metodi di base (qualitativi) se è nota l’incidenza che esse hanno sulla vita del singolo cittadino e sull'economia di una comunità. È opportuno redigerle con metodi quantitativi o prevedere quantomeno che ad esse segua un successivo, accurato, approfondimento da parte delle singole amministrazioni. L'inerzia nel programmare risorse economiche destinate alle attività che a livello locale permettano di avere aggiornamenti delle carte della pericolosità e del rischio, e quindi delle aree soggette a vincolo idrogeologico, nonché di pianificare e progettare interventi di mitigazione del rischio, non può essere pagata doppiamente dalla comunità da un lato in termini di mancata crescita economica e dall'altro per i danni causati dal verificarsi di un evento calamitoso.
- È necessario un lavoro sinergico tra i decisori politici e la comunità scientifica perché si comprenda la necessità di dare alla materia "dissesto idrogeologico" attenzione normativa a sé, seppur connessa a quella urbanistica. Questo passo consentirebbe innanzi tutto di dare alla produzione normativa una cadenza diversa da quella degli eventi calamitosi, permettendo così di studiare con continuità le problematiche relative alla prevenzione e alla mitigazione del rischio idrogeologico. Si riuscirebbe a creare in tal modo un quadro legislativo più completo e preciso che, non dando adito ad interpretazioni causate da vuoti ed imprecisioni, permetterebbe di garantire maggiore equità e giustizia. La mancanza di normativa tecnica in materia di rischio idrogeologico determina sovente, nelle più disparate controversie legate agli abusi edilizi o ai reati ambientali, la vittoria della consulenza tecnica che meglio sfrutta l’imprecisione di un dato articolo.
- Nell'ambito della produzione normativa in materia di dissesto idrogeologico si dovranno distinguere e trattare diversamente gli abusi edilizi "puri", da quelli che sussistono per mancanza del rispetto delle norme riguardanti la difesa del suolo; in quest'ultimo ambito bisognerà specificare le responsabilità dei soggetti nelle aree di propagazione e in quelle di innesco, nonché tra soggetti proprietari di beni pre-esistenti rispetto a quelli di nuove costruzioni.
Queste considerazioni potrebbero essere ulteriormente arricchite da diversi elementi, tuttavia, anche se sintetiche, permettono di concludere con una riflessione importante.
In ciascuno dei punti affrontati si può evincere che, puntualmente, le criticità nascono dalla distanza tra la "conoscenza accademica" e la realtà, ovvero tra la comunità scientifica e coloro che devono creare gli strumenti di governo e tutela del territorio, e tra essi (scienziati e decisori politici) e i cittadini che dovrebbe essere adeguatamente informati, formati e sensibilizzati sulle problematiche legate al territorio stesso.
Bisogna che la comunità scientifica si cali nella realtà che studia e trasferisca la "conoscenza" in quei processi che producono leggi e regolamenti e che se non adeguatamente predisposti possono determinano conseguenze ancora più dannose del vuoto normativo in un'area a rischio elevato.
Chi governa il territorio deve essere messo in condizione (ed obbligato) di tutelare la vita umana e l'ambiente. Non deve verificarsi che la ri-perimetrazione sia un escamotage utilizzato dai privati cittadini per costruire la propria casa in un'area a rischio elevata; non deve essere più tollerato l'accadimento di eventi calamitosi che mietono vittime innocenti e che solo a posteriori attirano l’interesse dell'opinione pubblica nel dibattito sulle azioni di prevenzione che si sarebbero dovute adottare.
Ed è proprio per questo che oggi si parla di Geoetica. Gli studiosi delle Scienze della Terra hanno il dovere di tutelare l’oggetto dei propri studi, del proprio lavoro, non solo attraverso un semplice copyright, ma soprattutto con il loro contributo nella definizione di quei regolamenti che permettano con rigore di tutelare la vita umana e l'ambiente, nonché nel favorire un processo di rinascimento culturale che deve vedere l'uomo nuovamente capace di prendersi cura e di rispettare il territorio in cui vive.